Il ritorno della terra: Libertà, lavoro e comunità nell’età post-industriale

C’è un filo che unisce il dissenso dei padri fondatori americani al disagio dell’uomo contemporaneo: la perdita del legame con la terra. Non è nostalgia agricola, ma memoria del limite e della libertà. Quando il lavoro si fa astratto e la vita si riduce a connessione, il pensiero critico comincia a morire.

Roberto Bonuglia

10/24/20253 min read

Golden field with rolling green hills and wind turbine.
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C’è un pensatore americano che, più di molti altri, sta riportando nel dibattito pubblico un tema apparentemente marginale ma in realtà decisivo: il rapporto fra libertà e terra. Si chiama Jeffrey A. Tucker, ed è una delle voci più originali del pensiero americano contemporaneo. Economista, saggista e fondatore del Brownstone Institute, Tucker ha attraversato quarant’anni di dibattito culturale mantenendo una coerenza rara: difendere la libertà di pensiero in tempi in cui la libertà sembra diventata un privilegio. Editorialista dell’Epoch Times e autore di dieci libri che spaziano dall’economia alla filosofia della tecnologia, è noto per la sua critica lucida e radicale alla tecnocrazia, che considera la vera religione del nostro tempo.

Nel suo più recente volume, Spirits of America: On the Semiquincentennial (Brownstone Institute, 2024), pubblicato in occasione dei duecentocinquant’anni dell’indipendenza americana, Tucker torna alle origini del pensiero democratico statunitense per riscoprirne il cuore dimenticato: la libertà come radicamento. Rileggendo Jefferson e i Padri Fondatori, mostra come la vita sulla terra, il lavoro manuale, la produzione locale e la responsabilità personale non fossero soltanto condizioni materiali, ma pilastri morali dell’indipendenza. Perché senza autonomia — economica, culturale e spirituale — non esiste né democrazia né comunità.

Tucker parte da questo presupposto per riflettere sull’America di oggi — e, indirettamente, su un intero modello di civiltà — dove la libertà è stata progressivamente sostituita dalla connessione, la concretezza dal virtuale, la comunità dal consumo. Nell’arco di pochi secoli, la zappa è diventata tastiera, il campo è stato rimpiazzato dallo schermo, e il contatto diretto con la materia è stato assorbito dalle astrazioni della finanza e della tecnologia.

La sua non è un’apologia del passato rurale, ma una critica all’equivoco moderno che identifica il progresso con la perdita di misura. Quando l’uomo non tocca più la terra, dimentica di essere parte di un ordine più grande di sé. Quando tutto è mediato da apparati tecnici e burocratici, la libertà non è più un esercizio ma un simulacro.

La libertà che nasce dal limite

Il passaggio dall’agricoltura all’industria – e poi dall’industria alla rete – ha generato un esodo culturale che Tucker interpreta come una forma di alienazione: l’uomo ha abbandonato la fatica concreta per l’illusione del controllo totale. Ma il prezzo di questa emancipazione apparente è stato la perdita di senso.

La “società del benessere” si è rivelata una società del malessere, dove la sovrabbondanza di mezzi corrisponde a una povertà di fini.

L’agricoltura, nel pensiero di Tucker, diventa così una metafora della cultura: coltivare significa prendersi cura, accettare la lentezza, riconoscere il limite. È il contrario della logica algoritmica che domina il presente. Come il contadino che sa attendere la stagione giusta, anche la democrazia richiede tempo, equilibrio, ciclicità. L’uomo contemporaneo, invece, pretende tutto e subito, senza radici e senza eredità.

Il realismo della comunità

Tucker osserva che la crisi della libertà nasce sempre da un eccesso di mediazione: troppe leggi, troppi intermediari, troppa burocrazia. I piccoli produttori agricoli americani — racconta nel libro — non sono schiacciati dalla natura, ma dallo Stato. Tasse, regolamenti, vincoli e monopoli soffocano la possibilità di un’economia locale, libera e autonoma.

Eppure, nel momento in cui si riafferma il principio della responsabilità individuale, anche la comunità ritrova forza. L’uomo che produce ciò che consuma e consuma ciò che produce è più libero, più dignitoso, più vicino alla verità delle cose.

Questa visione, pur radicata nella cultura americana, risuona anche nella crisi europea. Anche qui, la globalizzazione ha dissolto il tessuto produttivo locale e la tecnocrazia ha sostituito la politica. Ciò che Tucker denuncia come “industrializzazione forzata dell’agricoltura” non è altro che un paradigma del mondo intero: un modello che sostituisce il reale con il funzionale, la vita con la procedura, la libertà con l’efficienza.

Ritrovare il senso critico

Tucker non è un nostalgico, ma un realista. La sua critica si intreccia con quella di tanti autori che, anche in Europa, hanno denunciato l’espropriazione culturale dell’uomo moderno: da Ortega y Gasset a Pasolini, da Ivan Illich a Zygmunt Bauman. Tutti hanno compreso che una società che dimentica la concretezza finisce per perdere la capacità di pensare.

In questo senso, la sua riflessione incontra perfettamente la missione dell’Accademia del Senso Critico: recuperare la consapevolezza, restituire alla parola il suo peso, e al pensiero la sua lentezza.

Tornare alla terra, nel linguaggio simbolico di Tucker, significa tornare al pensiero: radicare l’intelligenza nella realtà, non nelle astrazioni ideologiche o tecnocratiche.

La libertà, in ultima analisi, è sempre una questione di responsabilità. E la responsabilità, come la terra, va coltivata ogni giorno.


Per approfondire

Tucker, J. A. (2024). Spirits of America: On the Semiquincentennial. Austin: Brownstone Institute.

Berry, W. (1977). The Unsettling of America: Culture and Agriculture. San Francisco: Sierra Club Books.

Ortega y Gasset, J. (1930). La rebelión de las masas. Madrid: Revista de Occidente.

Bonuglia, R. (2022). Dalla globalizzazione alla tecnocrazia. Orientamenti di consapevolezza distopica del Terzo millennio. Torino: Larsen Edizioni.