La deriva della società attuale

È stata interrotta la traditio, termine che identifica da sempre la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra: «Non c’è più Olimpia, Atene è stata sostituita da Francoforte» e «il deserto culturale, la socializzazione della cultura, sono funzionali alle necessità d’una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica».

Roberto Bonuglia

8/30/20255 min read

a drawing of a group of people standing in front of a window
a drawing of a group of people standing in front of a window

Nell’ormai lontano 1965 in un volume collettaneo edito a Boston si esponeva un’analisi della società democratica occidentale molto originale [1]. Essa veniva considerata come una particolare forma di totalitarismo che – a dispetto delle tecniche sofisticate e dei modi di essere apparentemente tolleranti – si stava sempre più permeando di una cruda volontà di repressione.

Nulla di nuovo a dire il vero poiché, già nel 1952, Jacob Leib Talmon aveva mostrato con quale facilità una costellazione di ideali – per definizione democratici – possa invece trasformarsi in un rigido sistema di coercizione [2].

Entrambi gli approcci si originavano da un quesito certamente originale per quei tempi e volutamente provocatorio: può una società democratica nascondere, sotto la sua maschera, un così atroce inganno? Può – diremo noi oggi –, una democrazia trasformarsi in democratismo tanto da caratterizzare un “regime democratico” degli stessi eccessi insiti in una realtà totalitaria?

La risposta non è facile. Certo, attualizzando ai nostri tempi l’approccio metodologico dei volumi citati qualche riflessione merita di essere fatta. Partiremo da un dato inconfutabile: oggi la globalizzazione e il connesso neoliberismo hanno liquidato l’intera cultura di tradizione umanistica.

È stata interrotta la traditio, termine che identifica da sempre la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra: «Non c’è più Olimpia, Atene è stata sostituita da Francoforte» e «il deserto culturale, la socializzazione della cultura, sono funzionali alle necessità d’una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica» [3].

E così la nostra società – piuttosto che l’ambito espressivo del libero gioco di interessi e di tensioni ‒, ci appare come una sorta di firmamento, riflesso di un ordine predisposto, le cui singole stelle e costellazioni rispondono alla forza di una legge ineluttabile, nella quale la persona non ha voce.

Gli “strani giorni” – per dirla provocatoriamente con Battiato – che stiamo vivendo rivelano il predominio della concezione politica hegeliana e marxista: entrambe, infatti, avevano in dispregio la realtà concreta dell’individuo tanto da rendere le forme storiche in cui ieri si svelavano, vere e proprie varianti de facto di un’unica sostanza totalitaria, indipendentemente dal tipo di ordinamento che oggi esprimono sia esso “totalitario” o “democratico”.

Era questo, in estrema sintesi, l’assunto centrale delle tematiche care a Eric Voegelin – dimenticato, ma non da tutti, maestro di filosofia e lettore dei “nostri” tempi – che nei suoi scritti spiegò bene quanto «in questa società massificata quel che manca è proprio… la consapevolezza dell’individuo» [4]. Un individuo, in altre parole, che pensa di poter aver un ruolo attivo nei processi decisionali ma che, invece, lo è solo in un susseguirsi scenografico di metodi di rappresentazione ‒ in qualunque forma essi si palesino, dalle tradizionali elezioni a quelle virtuali ‒, previsioni legislative, regolamentazioni amministrative, assistenza e tutela statale.

Non a caso, più sono perfetti i meccanismi per il movimento dell’intero quadro istituzionale – oggi resi tali da realtà sovranazionali come l’UE e dal cosiddetto “turbocapitalismo” monolitico – tanto minore risulta la possibilità di una partecipazione effettiva, dal basso, non manipolata, dismessa – con boria da buona parte di sociologi, politologi, economisti e quanti altri allineati e inglobati nella matrix democratista – come proposta anacronistica, se non risibile.

In tal senso, la figura dell’intellettuale rappresenta la cartina di tornasole della deriva delle nostre società: l’uomo colto, il sapiente, il filosofo, finisce per essere fagocitato nel complesso organismo di cui si è detto svolgendo, per esso, una funzione tra le tante ben lontana dalla mission platonica di “uscire dalla caverna”. Da ciò, già nel 1977, Norberto Bobbio aveva messo in guardia: ancor prima dell’entrata in scena dei palcoscenici mediatici delle TV private e del social web egli aveva previsto quanto sarebbe stato inevitabile per l’intellettuale assumere, magari inconsapevolmente, un ruolo funzionale al potere fino a divenirne un efficace strumento di razionalizzazione [5].

La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato e incoraggiato tutto ciò. Ed il risultato è piuttosto paradossale: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, l’“individuo” la persona, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale. Tutto, dunque, «risponde alle esigenze di un ordine prestabilito, che è la sola garanzia di vita societaria» [6].

Il caso italiano fornisce un irrinunciabile esempio di questo paradosso: oggi è molto più difficile svolgere un ruolo etico positivo rispetto all’Italia tra le due guerre. La storia della censura del secondo dopoguerra rivela – a chi voglia leggerla senza pregiudizi ideologici né derive revisionistiche – una triste verità: «Togliamoci dalla testa l’idea che, finito il fascismo, finita la guerra, sia finita l’attività censoria di controllo della libertà di espressione» [7].

Anzi, tutt’altro: a differenza di Trotskij a Mosca e degli Strasser a Berlino, è stato molto più semplice per Benedetto Croce avere un ruolo più politico che filosofico durante il Ventennio – pubblicando indisturbato le annate de “La Critica”, stilando “Manifesti” e dirigendo egocentricamente il catalogo delle edizioni Laterza – che per Arrigo Cajumi scrivere su “Il Mondo” un articolo sulle responsabilità di Don Benedetto davanti al fascismo, per Gioacchino Volpe difendersi dall’epurazione antifascista ai Lincei o per Renzo De Felice condurre placidamente i suoi studi su Mussolini qualche anno dopo.

E l’elenco potrebbe continuare rievocando «la costante, aggressiva corrosione dell’idealismo da parte della cultura comunista del dopoguerra da “Rinascita”, a “Società”, al “Contemporaneo”» nonché i «micidiali interventi censori dell’apparato editoriale comunista, fin dalla prima edizione dei “Quaderni” di Gramsci, o alle becere interdizioni democristiane di accesso a “libri proibiti”» [8].

Quale la premessa, la radice di tale paradosso? La risposta è rinvenibile nelle pagine ancora attuali di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer sul potere contemporaneo che si è imposto nel secondo dopoguerra “senza fretta ma senza tregua” ricorrendo «attraverso i Mass Media a un’azione “preventiva” di condizionamento che abituando l’individuo ad una ricezione passiva e meccanica dei messaggi, gli introgetta un’immagine predeterminata, univoca ed asettica della realtà che “lo persuade” ad adottare un tipo di linguaggio e di comportamento impersonale e stereotipato, con l’effetto finale di inibirgli sia le funzioni immaginative che quelle critico-riflessive» [9].

Una persuasione, quindi, non meno violenta della forza coattiva ma molto più sottile, paralizzante, insidiosa e inattaccabile che fa della democrazia un democratismo il quale trae la sua linfa vitale nel determinismo di derivazione marxista che rigetta, per sua natura, qualsiasi intellettualità o filosofia.

Destrutturata la cultura, insomma, il “marxiano” 2.0 viene usato «indiscriminatamente a fini demagogici e di potere, senza mai contare gran che nella pratica di una decisione politica» trasformando gli epigoni dei censori del secondo dopoguerra in “gerarchi” del pensiero unico, «mezze-figure, capipopolo senza scrupolo dediti esclusivamente alla soddisfazione di ambizioni insaziabili e al proprio tornaconto personale» [10].

Figure deprecabili, certo, ma che purtroppo confermano, non a caso, l’assunto di Voegelin secondo il quale «ogni società riflette nel suo ordine il tipo di uomo del quale si compone» [11].

[1] R.P. Wolff, B. Moore Jr., H. Marcuse, A Critique of pure tolerance, Boston, Beacon Press, 1966.

[2] J.L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg, 1952.

[3] P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, p. 162.

[4] G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, in E. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, Roma, Astra, 1980, p. 19.

[5] N. Bobbio, Gli intellettuali ed il potere, in «Mondoperaio», del novembre 1977, pp. 63-72.

[6] G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 39.

[7] P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, cit., p. 162.

[8] Ivi, p. 161.

[9] T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966.

[10] G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 16.

[11] E. Voegelin, Die Neue Wissenschaft der Politik, Monaco, Anton Pustet, 1959, pp. 93-95.