La politica senza pensiero, ovvero il dibattito ridotto a spettacolo

Viviamo nell’epoca in cui le parole non illuminano più: accecano. Il dibattito politico si è trasformato in spettacolo, la dialettica in scontro, la differenza in appartenenza. Le idee cedono il posto agli slogan, e il pensiero critico diventa un esercizio per pochi. Ma quando la politica rinuncia al pensiero, ciò che resta non è democrazia: è rumore.

Roberto Bonuglia

10/20/20252 min read

bird's-eye view of sitting on bench while discussion
bird's-eye view of sitting on bench while discussion

C’è qualcosa di irreversibilmente mutato nel modo in cui oggi si fa politica. Non si discute più per comprendere, ma per prevalere. La parola non è più strumento di confronto: è diventata un’arma. Gli ultimi scontri fra Giorgia Meloni, Elly Schlein e Maurizio Landini – amplificati da un ecosistema mediatico che vive di esasperazioni – lo mostrano con chiarezza. La politica ha smesso di argomentare; ha iniziato a reagire. Ogni battuta, ogni frase, ogni errore linguistico diventa pretesto per consolidare schieramenti, non per interrogarsi sui contenuti.

Questa logica dell’immediato ha prodotto un paradosso: più aumenta il volume del dibattito pubblico, meno si discute davvero. La scena politica si è trasformata in un’arena gladiatoria dove la retorica sostituisce il ragionamento e la forma diventa più importante della sostanza. Il risultato è un linguaggio sempre più povero, aggressivo, seriale: un linguaggio che non illumina, ma acceca.

La retorica dell’indignazione

La vicenda Landini–Meloni ne è un esempio eloquente. Un errore linguistico, un’espressione infelice, diventa il detonatore di una polemica nazionale. Nessuno prova a distinguere la forma dal contenuto, la gaffe dall’intenzione: tutto si appiattisce nel riflesso condizionato dell’indignazione. In questo schema la destra e la sinistra finiscono per assomigliarsi. Entrambe reagiscono con la stessa rabbia, la stessa ansia di ribadire appartenenze. La sinistra, che un tempo faceva dell’autocritica uno strumento di progresso culturale, si è adeguata ai registri dell’aggressività populista, come se la durezza del tono potesse compensare la fragilità del pensiero.

Ma il problema è più profondo. Il conflitto politico non nasce più da visioni diverse del mondo, bensì da un bisogno costante di visibilità. È la logica del talk show trasferita nell’arena parlamentare: non si parla per convincere, ma per catturare attenzione. Il dissenso, invece di diventare dialogo, si traduce in spettacolo.


La trasformazione del linguaggio politico

Il linguaggio, che dovrebbe essere la prima forma della responsabilità, è diventato un campo di battaglia. Ogni parola è interpretata in chiave identitaria, ogni frase viene caricata di significati morali, ogni silenzio viene letto come un tradimento. È in questo clima che la polarizzazione si consolida: quando la parola non serve più a costruire ponti, ma a erigere muri.

Un tempo la dialettica fra maggioranza e opposizione serviva a educare il cittadino al pensiero critico. Oggi, invece, la contrapposizione permanente serve a impedirglielo. La politica si nutre di tifoserie, non di idee. Gli elettori, bombardati da reazioni, dichiarazioni e smentite, finiscono per identificare la politica con il rumore stesso che la accompagna.


La scomparsa del contenuto

Il risultato è un Paese che non discute più di sanità, scuola, lavoro, ambiente, ma di frasi, di toni, di gesti. Il contenuto si è dissolto dietro la rappresentazione. Ogni tema viene ridotto a sfondo per una disputa personale. Nel frattempo, l’astensionismo cresce, non per disinteresse, ma per saturazione: troppa comunicazione, troppo poca sostanza.


Verso un nuovo analfabetismo civile

Questa crisi non è solo politica: è culturale. È l’effetto di una progressiva perdita del senso critico, quella capacità di distinguere, analizzare, pesare. La polarizzazione non è causa, ma sintomo di un impoverimento più profondo: la rinuncia collettiva alla complessità. Una società che non sa più pensare, ma solo reagire, è una società vulnerabile – manipolabile.

Non è un caso che l’aggressività pubblica cresca di pari passo con l’analfabetismo funzionale e con la crisi della scuola. Dove non c’è esercizio del pensiero, il conflitto diventa inevitabile. E così, al posto della discussione, resta solo l’urlo.


Per approfondire

Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Cambridge: Polity Press.

Bonuglia, R. (2023). Terze pagine. Biografismi e storie all'ombra di Clio. Lecce: Youcanprint.

Augé, M. (2008). Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità. Milano: Elèuthera.

Postman, N. (1985). Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business. New York: Penguin Books.

Debord, G. (1967). La società dello spettacolo. Parigi: Buchet-Chastel.