Quando l’intelligenza diventa artificiale: il rischio di una mente delegata
Le macchine non stanno solo imparando a pensare. Stiamo dimenticando di farlo noi. Nell’epoca dell’automazione cognitiva, il problema non è l’intelligenza delle macchine, ma la nostra progressiva rinuncia all’esperienza.
Roberto Bonuglia
10/29/20253 min read
Non è tanto la paura di perdere un lavoro, né la preoccupazione — pur legittima — per la nostra privacy a generare inquietudine. A spaventare davvero è altro, qualcosa di più sottile e intimo: la sensazione che, delegando alle macchine la fatica del pensare, stiamo lentamente dimenticando come si fa. Ogni volta che un algoritmo decide per noi, ci solleva da un peso, ma anche da un compito. Non sono solo strumenti che risolvono problemi: finiscono per dirci quali problemi vale la pena di porsi. Senza quasi accorgercene, lasciano scivolare più in là il confine tra decisione e dipendenza, fino a renderlo sfocato.
Per decenni abbiamo creduto che l’innovazione digitale avrebbe ampliato la nostra libertà. Oggi scopriamo che, mentre aumentano i dati, diminuisce l’esperienza. È la “dipendenza iatrogena” di cui parlava Ivan Illich: il fenomeno per cui gli strumenti creati per guarire generano nuove forme di malattia. Allo stesso modo, le tecnologie nate per potenziare la mente rischiano di renderla incapace di pensare senza ausilio.
La promessa e la resa
Com’è successo, allora? La storia dell’uomo è, de facto, una lunga catena di rivoluzioni che hanno - volenti o non volenti - cambiato il suo sguardo sul mondo. Ogni volta, una nuova invenzione ha spostato un confine: la stampa ha moltiplicato le voci, la macchina a vapore ha liberato la forza, il computer ha trasformato la mente in calcolo. Ma l’intelligenza artificiale porta con sé una discontinuità più radicale. Non cambia soltanto ciò che facciamo o come lo facciamo: cambia il modo stesso in cui conosciamo.
La rivoluzione digitale ci aveva già abituati a “esternalizzare” la memoria, a conservare fuori di noi ciò che un tempo abitava dentro. L’intelligenza artificiale, però, fa un passo ulteriore: non custodisce soltanto il ricordo, ma si insinua nel giudizio. E quando il giudizio viene delegato, anche la libertà inizia a tremare.
La comodità, come ogni anestetico, ha un prezzo. In molti casi l’uso quotidiano di strumenti algoritmici — dai motori di ricerca ai suggerimenti di scrittura automatica — ha già eroso la capacità di affrontare la complessità senza mediazioni. È un lento processo di atrofia cognitiva, mascherato da efficienza.
Il nuovo conformismo tecnologico
La pandemia, con il suo isolamento forzato e il crollo della fiducia nelle istituzioni, ha accelerato l’adozione di intelligenze artificiali come surrogati di relazione e conoscenza. Proprio quando il tessuto sociale si è lacerato, le macchine si sono offerte come sostituti di legami e di senso.
Il risultato è una società sempre più “automatizzata” non solo nei gesti ma nel pensiero: un mondo in cui la previsione sostituisce il rischio e l’algoritmo diventa misura del reale.
Il rischio maggiore non è la ribellione delle macchine, ma la nostra obbedienza volontaria. È l’erosione silenziosa delle facoltà critiche, sostituite da risposte perfette e immediate. Come accadeva nei film distopici, la seduzione della comodità vince sempre sulla fatica della libertà.
Resistere pensandoci
Che fare, allora? Non si tratta di rifiutare la tecnologia ma di restituirle misura e senso. Usarla strategicamente, come suggerisce Jeffrey Tucker, significa servirsene per estendere la conoscenza, non per sostituirla.
Servono tre gesti elementari ma rivoluzionari:
riscoprire il limite, difendere il tempo, custodire la relazione.
Riscoprire il limite perché ogni intelligenza che si crede infinita smette di essere umana. Difendere il tempo perché la velocità uccide la profondità. Custodire la relazione perché il pensiero nasce sempre da un dialogo, mai da un calcolo.
Nell’epoca della “mente delegata”, l’atto più sovversivo è pensare da sé.
Non per nostalgia del passato, ma per difendere ciò che rende umano il futuro.
Roberto Bonuglia
Per approfondire
Illich, I. (1976). Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Milano: Mondadori.
Tucker, J. A. (2024). Spirits of America: On the Semiquincentennial. Brownstone Institute.
Agamben, G. (1978). Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia. Torino: Einaudi.
Bonuglia, R. (2022). Dalla globalizzazione alla tecnocrazia. Orientamenti di consapevolezza distopica del Terzo millennio. Torino: Larsen Edizioni.
